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Rita Atria vedeva oltre. Oltre i condizionamenti culturali del contesto nel quale era cresciuta. Oltre la paura che l’avvolgeva da quando quel contesto aveva deciso di lasciare, consapevole dei rischi. Oltre le analisi stupefatte dei giornali, parole arrabbiate ma impotenti di fronte all’ennesima strage di mafia, che era costata la vita a Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
La diciassettenne Rita fu la settima vittima della strage, anche se raramente leggiamo il suo nome associato a quello del magistrato e degli agenti di scorta.
Nata a Partanna, in provincia di Trapani, in una famiglia mafiosa, perse prima il padre e poi l’amato fratello per mano dei sicari di gruppi rivali. Fu allora che, in modo sofferto ma determinato, Rita scelse di diventare testimone di giustizia, anche seguendo l’esempio della giovane cognata Piera.
Di fronte all’omicidio di persone care, la decisione di testimoniare può confinare col desiderio di rivalsa, se non di vendetta. Ma non fu così per Rita, perché lei appunto vedeva oltre, anche oltre la mentalità rancorosa e violenta che aveva respirato fin da piccola. Nel cercare lontano dalla famiglia opportunità di una vita più autentica l’aiutò un incontro prezioso: quello con due giovani magistrate, Alessandra Camassa e Morena Plazzi, e poi col Procuratore di Marsala Paolo Borsellino, che ascoltò le sue confidenze. Lui seppe accogliere e indirizzare le emozioni della “picciridda”, come era solito chiamarla, le sue aspirazioni di giustizia, di integrità, di libertà da un destino già scritto. Lei gli si legò come a un secondo padre. E per questo non resse al dolore della sua morte.
Pochi giorni dopo l’attentato di via D’Amelio, il 26 luglio 1992, Rita, che viveva sotto protezione a Roma, si lasciò cadere dal balcone dell’appartamento dove stava per trasferirsi: in quell’attimo le fu impossibile vedere oltre – oltre il buio e la disperazione – la possibilità di un futuro felice.
Furono un gruppo di donne a portare la bara il giorno del funerale, al quale la famiglia non si presentò. La tomba venne più volte vandalizzata. E sua madre, una persona annientata dai lutti e schiacciata sotto il peso di codici mafiosi più forti persino degli affetti, rifiutò qualsiasi parola di pietà verso la figlia.
Da questa storia disperata, oggi incredibilmente germoglia speranza. Nel nome di Rita e nel suo esempio si alimentano infatti tenaci iniziative d’impegno contro le mafie, a partire da una cooperativa che coltiva le terre confiscate ai boss proprio nel suo territorio di nascita. Nel suo nome e nel suo esempio abbiamo inoltre imparato a prendere per mano tanti ragazzi e ragazze come lei, prima che la paura o l’assuefazione a soffrire cancellino il loro desiderio di vivere, e vivere in modo autentico. Oggi quei ragazzi sono “Liberi di scegliere”, come il nome del progetto che unisce tanti soggetti pubblici e privati per costruire percorsi protetti, opportunità di studio e volontariato, esperienze professionali, ma soprattutto ascolto, sostegno, relazione: quello che a Rita offrì Paolo, e che ciascuno di loro ha bisogno. Insieme ai giovani, anche tante donne, tante mamme, intraprendono il cammino non semplice che porta lontano dalla terra e dalla famiglia di origine, ma soprattutto lontano dalle leggi della violenza e della sopraffazione, per vedere cosa c’è “oltre”. Quell’oltre che Rita nel suo diario descriveva così: “un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quella persona o perché hai pagato per farti fare quel favore”.
Rita vedeva oltre anche perché, con la freschezza dei suoi 17 anni, aveva capito cose che molti, magari “esperti”, tutt’ora faticano ad accettare. E cioè che, al di là delle mafie come fenomeno criminale, esiste una vasta sfera di comportamenti che, pur non essendo mafiosi in senso stretto, a quel mondo sono affini e funzionali. “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”. Come darle torto?
Dalle ingiustizie economiche e sociali alle politiche della paura, fino ai modelli culturali fondati sulla competizione e l’auto-affermazione, ci sono sempre più mafie che “siamo noi” e proprio “noi” abbiamo l’obbligo di contrastare. Perché i sogni dei ragazzi come Rita non trovino mai più un abisso di sei piani sotto di loro, ma una scala solida che sale, per riuscire a guardare sempre oltre.
La Stampa | 26 luglio 2022