Referendum cittadinanza
19 set 2024 - Luigi Ciotti: "Ogni volta che le leggi sono figlie della paura, e non ancelle della speranza, sta ai cittadini ribellarsi e chiedere leggi migliori"
«Perinde ac cadaver»: così i Gesuiti esprimono sottomissione assoluta ai superiori. Questa formula ispira chi dà per scontato che la Corte Costituzionale ammetterà i mafiosi ergastolani che non collaborano con lo Stato al beneficio della liberazione condizionale (scelta che di fatto cancella l’ergastolo ostativo). Il pronostico si basa sul fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) l’ergastolo ostativo lo ha già demolito con una sentenza del 2019. Ma siamo sicuri che la suprema istanza della giurisdizione italiana debba — sempre e comunque — prestare incondizionato e pedissequo ossequio alla Giustizia europea? Oppure, tale ossequio (pur ammissibile in linea di principio nel quadro di una «leale collaborazione con le Corti sovrazionali») deve essere calibrato sulla specificità dei casi concreti che la Consulta deve volta a volta esaminare? Quando si tratta di questioni legate alla mafia, questa prospettazione è semplicemente razionale e risponde ad un elementare principio di realtà. Realtà della quale il nostro Paese è purtroppo depositario quasi esclusivo, mentre oltre i nostri confini non la si conosce o la si sottovaluta. Tant’è che solo noi abbiamo il reato associativo (416 bis). Solo noi: nonostante la Convenzione Onu di Palermo del 2000 faccia obbligo agli aderenti (quasi tutti gli Stati del mondo) di nserirlo nella legislazione nazionale. Che almeno da noi (a partire dalla Consulta) si tenga conto della reale specificità della mafia. Riconoscendo innanzitutto che le mafie dominano ancora parti consistenti del territorio e della vita politico economica del Paese. Esse sono quindi la negazione assoluta dei valori di libertà e uguaglianza che della Costituzione sono la linfa. Rimuoverle è compito che l’articolo 3 cpv affida ad ogni organo della Repubblica, nessuno escluso. Oltre al 416 bis e alla legge sui pentiti, nel nostro ordinamento penitenziario abbiamo il 4 bis (ergastolo ostativo) e il 41 bis. Un «pacchetto» ispirato da Falcone, definito dopo le stragi del 1992, che ha consentito imponenti risultati. Ma la mafia, pur avendo ricevuto duri colpi, è viva e vegeta e non c’è motivo di smantellare quel che funziona, con un incomprensibile distacco dalla realtà. Ecco un elenco di realtà da non «ignorare». Primo: l’ossessione dei mafiosi per la condizione dei compagni detenuti è storica. Salvatore Riina la esprimeva dicendo che si sarebbe giocato anche i denti pur di ottenere qualcosa. Toccare l’ostatività dell’ergastolo equivale a disincentivare i pentimenti: Riina sarebbe due volte contento. Secondo: l’articolo 27 della Costituzione (la pena deve tendere alla rieducazione del condannato) ha un incontestabile valore di civiltà; ma in concreto può funzionare solo per i condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è assolutamente il caso dei mafiosi «irriducibili» che non si sono pentiti. Terzo: i mafiosi infatti giurano fedeltà perpetua all’organizzazione; lo status di «uomo d’onore» è per sempre; la collaborazione con lo Stato è l’unico modo per «disertare»; lo provano l’esperienza e gli studi sull’identità mafiosa. Quarto: nessun automatismo se la Consulta «apre», ma un bell’azzardo. A decidere caso per caso sulla persistenza della pericolosità del mafioso sarebbe pur sempre il giudice di sorveglianza; che però si troverebbe allo sbaraglio, in quanto—senza il decisivo requisito del pentimento — manca ogni fattore obiettivo cui ricollegare il distacco dal clan; le relazioni (carcere, Cosp, procure antimafia) che dovrebbero aiutare il giudice in pratica servono a poco, afflitte come sono, di solito, da formalismo burocratico. In sostanza, senza «ancoraggio» al pentimento, la decisione del giudice si riduce appunto ad un pericoloso azzardo. Quinto. Di più: agli occhi del mafioso — poco propenso ai «distinguo» — il giudice che nega un beneficio consentito dalla Consulta, automaticamente diventa un «nemico»: anche quest’automatismo dovrebbe preoccupare, in quanto foriero di possibili nefaste conseguenze di cui la storia di Cosa nostra è maestra. Infine, nella denegata ipotesi (un po’ di giuridichese...) che la Consulta assuma un orientamento diverso da quello qui auspicato,resterebbe il fatto che le sue pronunce sono molto spesso «più che il punto conclusivo di una certa vicenda, il punto intermedio di uno sviluppo normativo che trova compimento solo quando il Legislatore lo conclude» (Marta Cartabia). Ma intanto la credibilità che le vittime di mafia hanno restituito allo Stato con il loro sacrificio rischia di svanire. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda), facendo valere proprio i suoi 25 anni di carcere senza aver mai collaborato davvero.
Gian Carlo Caselli Corriere della Sera 6 aprile 2021